Un ragazzo si muove in uno spazio abbandonato, sembra cercare qualcosa. È una pietra che infine trova, la raccoglie, l’annusa, la sotterra. Cosa si cela in quell’oggetto? E che racchiude il gesto di quel giovane uomo simile a un misterioso rituale? Intorno a quella costruzione che ha perduto il suo originale utilizzo la vegetazione esplode ricca, in colori brillanti, invade il cemento, ne penetra la struttura fino a ridefinirne l’aspetto. Le piante senza controllo si sono moltiplicate in un paesaggio privo di riferimenti riconoscibili, sospeso nell’atemporalità che lo fa apparire ancora più inquietante. La sola figura umana è quella del ragazzo che ne viene quasi inghiottito, i suoni sono voci incomprensibili, frammenti secchi di conversazioni e canzonette anch’esse fuori dal tempo. «Quando l’amore viene…» si sente nell’aria: da dove arriva?
È quello di Melani un lavoro che intreccia più filtri e suggestioni contaminando la propria immagine con la materia pittorica che la riempie di fisicità. I vegetali privi di romanticismo appaiono all’improvviso sgranati, ingigantiti, dilatati; polpa che è quasi come una carne, nervature oltre la superficie dell’apparenza, in forme che rimandano all’anatomia. Nei dettagli di quella natura – e di un’umanità sospesa – il regista cerca le tracce di una memoria, qualcosa che è stato, ciò che è rimasto, la sue mutazioni; le storie mai narrate la cui presenza persiste nella materia, negli odori, in quella pietra. E oltre il visibile immerge lo sguardo in una dimensione inattesa. (Cristina Piccino)